Intervista in esclusiva a Marco Lanzetta: “La prima cosa da fare per diventare un n.1 è pensare”
Parliamo oggi di eccellenza nell’ambito della chirurgia, e lo facciamo con un numero uno: Marco Lanzetta. Chirurgo della mano famoso in tutto il mondo, nel 1998 a Lione Marco Lanzetta ha effettuato il primo trapianto di mano al mondo, nel 2000 il primo trapianto al mondo di entrambe le mani e, nello stesso anno, il primo trapianto di mano in Italia. Marco Lanzetta lavora in ogni angolo del pianeta: oltre ad aver ricostruito la mano a tantissime vittime di attentati terroristici, tra cui molti bambini, Marco Lanzetta a puro scopo umanitario ricostruisce gli arti agli abitanti dei paesi più poveri.
Proprio il 23 settembre di quest’anno ricorre il 25esimo anniversario del primo trapianto di mano al mondo.
La chirurgia della mano e il trapianto di mano: un intervento dalla complessità tecnica estrema, difficilmente immaginabile. Possiamo ben immaginare quante microscopiche componenti ci sono dentro una mano: parti quasi invisibili che continuamente si interfacciano tra loro per far sì che tutto funzioni. Ma non soltanto. Pensate alle informazioni fresche che, attraverso i nervi ricostruiti, devono arrivare direttamente al cervello… Possiamo dire insomma che le mani rappresentano una sorta di prolungamento del cervello stesso. Fondamentali nella vita quotidiana, le mani hanno avuto anche un enorme
importanza nell’ambito dell’evoluzione dell’uomo.
Siamo andati oggi a scoprire l’anima dell’eccellenza di Marco Lanzetta. Un’anima fatta di tanta voglia di vivere e della volontà di non perdere nemmeno un istante della propria vita: “Odio perdere tempo- dice il chirurgo. “La nostra vita, corta o lunga che sia, è piena di momenti importanti e vanno sfruttati al massimo. Quindi io non sopporto non sfruttare il poco tanto tempo che ho”.
Perché proprio la mano, Marco?
“Perché a me piace il piccolo, mi piace la perfezione, mi piace l’estetica e voglio il massimo. Voglio che quel massimo si veda”.
Ma chi è il numero uno, secondo te?
“Il numero uno è quello che vince, nello sport, nella professione, nell’arte o nella scienza. Essere un numero uno vuol dire arrivare dove qualcun altro non è arrivato prima di te”.
Qual è il segreto per diventare un n. 1?
“Il n. 1 non è frutto della casualità. Ognuno, potenzialmente, può essere un n.1, l’importante è sapere come si fa. C’è un algoritmo da dare ai nostri figli. C’è la possibilità di partire dal fondo della piramide e salire al primo posto. C’è un percorso da studiare, con l’obiettivo di arrivare al top, dove non c’è nessuno. Il punto di partenza è pensare. Riflettere, oggi, è un’attività molto in disuso: nessuno pensa più, perché non ha tempo, voglia, predisposizione. Ma, se vuoi diventare un n.1., è fondamentale pensare e prendersi del tempo. Per un ragazzo, per esempio, può significare prendersi un anno sabbatico, o un anno per viaggiare per il mondo, o per fare volontariato. Pensare vuol dire capire cosa voglio fare nella vita. Di solito l’anno sabbatico ti pone di fronte a una serie di incontri, finché non fai l’incontro per antonomasia, quello che ti fa dire “Ecco, io voglio fare quella cosa lì!”. Quell’incontro lo fai al momento giusto. E questo incontro ti fa pensare. Devi riflettere: ma io voglio diventare un n.1? Non sono molti quelli che vogliono questo. Perché non tutti possono diventare un n.1″.
Dopo la riflessione cosa avviene?
“Bisogna capire come raggiungere il meglio. Quando hai capito che vuoi essere il più bravo nel tuo ambito, la seconda cosa è appunto arrivare al meglio. Chi è il più bravo in quella cosa? Devi andare lì, dal n.1 in quell’ambito, anche se è dall’altra parte del mondo. Devi andare dal migliore, non c’è alternativa. Così come Raffaello e gli altri pittori rinascimentale andavano a bottega. Quindi, devi identificare e raggiungere il meglio. Poi, dopo essere arrivati al meglio, si deve imparare da quel meglio. E imparare non ti viene dato gratis. Imparare vuol dire umiltà, tenacia e fatica fisica e mentale. Il maestro deve fidarsi di te, deve trasferire su di te la sua conoscenza, tu non devi mai contestarlo, ma sfidarlo. Lo sfidi, cercando di capire il più possibile da lui. E lui deve essere ben predisposto nel darti questa conoscenza. A quel punto, quando hai pensato e imparato, devi avere la capacità di capire quando partire. Ognuno ha il suo momento. Ti devi buttare soltanto quando capisci che è il momento giusto. E da lì puoi prendere il volo. Io, il momento in cui partire, l’ho sentito chiaramente. E ho seguito questo mio “istinto” e questa mia presa di coscienza”.
Come si chiude il cerchio?
“Con l’eredità che lasci. Un n.1 deve passare le sue competenze, il suo know how e la sua esperienza al n.1 che verrà dopo di lui. Soltanto così il cerchio si sarà chiuso”.
Torniamo alla tua eccellenza. Ci sono cose che, per te, sono fondamentali. Tra queste, il silenzio.
“Il silenzio è fondamentale: senza il silenzio non potrei lavorare. Non soltanto in sala operatoria, ma anche in tutti gli altri miei spazi professionali o meno, il silenzio è sempre presente”.
Un silenzio prezioso, che ti aiuta a entrare in quello stato che molti definiscono “di flow”. Anche tu, quando operi, entri in questo stato?
“Assolutamente sì. E questo è il motivo per cui, in sala operatoria, mi ci trovo così bene. Quando sei in sala operatoria non senti più il tempo che passa o le cose che succedono: sei in uno spazio differente”.
Quali sono gli ostacoli, le barriere da vincere per diventare eccellenti nella chirurgia della mano?
“La prima barriera è quella che sta dentro di te. Se tu non sai di potere essere un numero uno, non ti ci mettere neanche, perché non ci potrai mai arrivare”.
Aspetto emotivo, sensibilità umana ed empatia: un vantaggio o uno svantaggio?
“Naturalmente entrambi. Bisogna essere empatici perché così si crea quel rapporto con il tuo paziente di fiducia totale e questo già è la metà del risultato. Però non bisogna eccedere, perché c’è il rischio di essere svuotati di energia. E, quando il serbatoio è vuoto, non si può più raggiungere niente”.
Nell’ambito della chirurgia della mano tu rappresenti sicuramente l’emblema del cambiamento. Quali sono i pilastri del vero cambiamento, sia a livello individuale che sociale?
“La curiosità di continuare a scoprire qualche cosa di nuovo, di sconosciuto e anche affascinante. Si entra in un mondo dove non esiste un un pregresso, un passato, e quindi si esplora proprio con anche la soddisfazione dell’esploratore appunto. A livello di società, penso che ci sia ancora poco da progredire: la mia visione personale è che siamo ormai arrivati al punto dove andare avanti vuol dire tornare indietro, e quindi dobbiamo andare a riscoprire delle cose che abbiamo superato e che, invece, oggi dovrebbero essere ancora attuali”.
Hai dei paletti?
“Sì, assolutamente sì. Prima di tutto il bene del paziente. C’è tutto uno schema etico che va rispettato. Mai fare qualche cosa di tipo troppo avventato, avveniristico o troppo innovativo, senza tenere presente i rischi e i benefici delle cose. Però bisogna anche rischiare, perché è solo così che si va avanti. Quindi, ripeto, pensandoci bene, si possono intraprendere le cose innovative che poi ti portano a un intervento ottimamente riuscito. Lì, provo un senso di arricchimento o di svuotamento, di euforia per aver magari fatto quello che era nelle mie possibilità e non essermi accontentato di una cosa meno buona”.
La chirurgia della mano. La mano. La nostra esperienza del mondo passa attraverso le mani. Non a caso Kant le definiva il cervello esterno dell’uomo, la finestra della mente . Che cosa rappresenta secondo Marco Lanzetta la mano per una persona?
“La mano non è un organo vitale, quindi tecnicamente parlando noi non salviamo una vita. O meglio, non salviamo la quantità di una vita, la lunghezza di una vita, ma sicuramente salviamo la qualità. Salviamo la capacità di poter realizzare qualche cosa secondo i propri talenti”.
Il fatto di farsi trapiantare un arto colpisce maggiormente l’immaginario delle persone rispetto, per esempio, a farsi trapiantare un rene o un fegato. Questo quali implicazioni ha con il tuo lavoro?
“Implicazioni importantissime, perché come diciamo sempre, la mano ha una valenza molto importante anche dal punto di vista sociale ed estetico. Questo è un trapianto nuovo, non salvavita, ma un trapianto che ridona la qualità della vita a tanti pazienti che l’hanno persa”.
Il primo trapianto di mano al mondo. Uno solo al mondo, appunto, avrebbe tagliato quel traguardo per primo. Agosto 1998, tu sei a Montreal, stai andando al congresso mondiale della microchirurgia alla guida del tuo fuoristrada appena noleggiato. Decidi che quell’uno solo saresti stato tu: una decisione che hai preso in una frazione di secondo. Ecco, Marco: cosa sta dietro quella frazione di secondo?
“Dietro questa decisione c’è un lavoro lunghissimo, di quattro anni e mezzo, in silenzio. In varie parti del mondo rincorrevo tutto quello che era stato fatto dal punto di vista sperimentale perché volevo avere una conoscenza assoluta dello stato dell’arte. In quel momento sono stato anche molto fortunato perché si è realizzata una congiuntura di tante situazioni per cui avevamo un’organizzazione, un paziente, avevamo le idee chiare avevamo dei protocolli e quindi ho percepito che in quel momento ci eravamo e che si poteva fare”.
Veniamo proprio al giorno dell’intervento. 23 settembre 1998, ospedale di Lione, 13 ore di intervento chirurgico. Naturalmente in sala operatoria silenzio totale, quasi surreale. E poi il traguardo, la vittoria, una gioia indicibile, possiamo dire l’euforia dell’anima. Quali sono i pensieri e le emozioni che ricordi di allora e quali quelli di oggi, ripensando a quel momento?
“Sì non ho bisogno di pensare a un ricordo perché è un’emozione che è presente ancora adesso, uguale identica, un’emozione che non è mai svanita, non è mai sfumata. È stato veramente un traguardo straordinario e farne parte mi ha ripagato anche di tutto il lavoro che era stato fatto prima. È qualche cosa che ha segnato tantissimo la mia vita ed è un qualche cosa che mi ha cambiato anche in bene, forse pure, in qualche modo, nel male. Comunque mi ha cambiato, non mi ha lasciato come ero prima”.
Traguardi e successi inimmaginabili. Eppure tu, Marco, per esempio i premi riconoscimenti, se puoi, li rifiuti. Perché?
Perché sono la prova lampante che sei decadente, che sei finito, che sei in uscita. E quindi non mi fa piacere. Ce ne sono alcuni che si devono accettare. Però, in generale, gli applausi finali si fanno quando tutto si sta chiudendo.
Il primo trapianto di mano al mondo. Una scommessa che fino all’ultimo poteva rivelarsi troppo azzardata, e che invece tu hai vinto. “Anche se- come dici sempre- da domani comincerà un’altra avventura”. Tu, Marco, senza pensare a una nuova sfida proprio non ci sai stare. Qual è la prossima sfida di Marco Lanzetta? Qual è la tua prossima avventura?
“Sì, il trapianto di mano diciamo è archiviato, nel senso che ormai non si tratta più di un intervento pilota sperimentale ma ci sono tantissimi centri al mondo che fanno trapianti di mano. Quindi questo ad esempio è una grandissima soddisfazione. Da parecchi anni mi sono dedicato una cosa che non è per pochi come il trapianto della mano ma per tantissime persone, per milioni di persone. Mi sono dedicato l’artrosi e sto cercando, credo anche con qualche riscontro positivo come ci dicono i nostri pazienti, di trovare delle terapie alternative a quelle tradizionali. Sto cercando quindi di lavorare molto di più sull’alimentazione, sul movimento, sulle cellule staminali e questo è motivo di grande soddisfazione”.
Rifaresti tutto da capo?
Sì, assolutamente. Non cambierei niente, perché se guardo indietro alle scelte che ho fatto, penso che erano tutte scelte fatte in buona fede. Alcune volte non avevo le risposte alle mie domande perché era un terreno sconosciuto quindi mi sono dovuto fidare del mio istinto. E quindi sì, in larga parte devo dire che non rimpiango niente. Puoi farmi la domanda due volte?
Va bene. Rifaresti tutto da capo?
“Assolutamente no. Farei tante cose in maniera completamente diversa. Col senno del poi, e forse ripensandoci, anche allora avrei potuto avere gli elementi per fare delle scelte diverse. E ho fatto degli sbagli che non ti dico, però ne ho fatti tanti, e non ne son orgoglioso: spero di avere la possibilità di correggerne qualcuno. Però la risposta è no”.
Quando, nel tuo ambito, un intervento può dirsi veramente riuscito?
“Quando tu hai riportato una mano fragile, lesionata, brutta esteticamente, il più vicino possibile a quello che era prima dell’incidente, della malattia. Questo il grande successo della chirurgia è visibile a tutti, non è una cosa nascosta: il paziente, i parenti, gli amici, i familiari e il chirurgo lo possono vedere tutto il tempo sotto i loro occhi. Quindi non hai scuse, non puoi dire non è non è colpa mia, perché sei stato tu a farlo”.