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Una storia di eccellenza italiana. È quella della Sartoria Caraceni, atelier rinomato e apprezzato in tutto il mondo, con una lunga e prestigiosa tradizione alle spalle. Siamo andati a trovare il titolare, Carlo Andreacchio, sarto di fama internazionale, apprezzato particolarmente per il suo gusto raffinato e la sua attività costantemente volta alla difesa della qualità artigianale italiana.

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Carlo Andreacchio, sarto di fama internazionale, titolare della Sartoria Caraceni

Insieme a Carlo ci siamo tuffati nell’eccellenza italiana. Ma cos’è, per Carlo Andreacchio, l’eccellenza? “L’eccellenza è qualcosa che non si può descrivere a parole– dice-. È una qualità che si raggiunge soltanto partendo dal sacrificio. A maggior ragione, nel campo della sartoria: un ambito, questo, nel quale nulla è scontato: devi continuare a lottare, sei sotto esame in ogni momento”. La soddisfazione con cui però poi sei ripagato è davvero incommensurabile. “Il cliente si affida completamente a te. Devi creare per lui un abito che possa indossare senza problemi, in ogni occasione. I nostri clienti ricoprono tutti posizioni di rilievo: quando si trovano in un cda o in un congresso non devono certo pensare all’abito, ma solo a quel che devono dire o fare. Questo è eccellenza: dare un servizio a trecentosessanta gradi”.

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La Sartoria Caraceni, un esempio di eccellenza italiana

Entrare nella Sartoria Caraceni è un’esperienza che lascia un segno. Ogni angolo trasuda di storia e di quell’eleganza prestigiosa che solo in pochi possono vantare. “Tutto dipende da come tratti un cliente, dalla tua gentilezza, dal tuo modo di accoglierlo. Il cliente, quando arriva qui– sottolinea- si mette a nudo, sia in senso fisico che, soprattutto, psicologico. Da un certo punto di vista potrei dire che il cliente qui perde la sua sicurezza perché si sente in soggezione”. E la bravura sta proprio qui, nel metterlo a proprio agio, nel renderlo più sicuro e più bello. “Tutti i nostri clienti hanno sempre apprezzato il nostro modo di fare: oltre a essere un buon sarto, devi saperci fare con il cliente”. L’eccellenza è anche questo.

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Nella Sartoria Caraceni ogni angolo trasuda di storia e di eleganza prestigiosa

La nostra conversazione si sposta quindi sulla sartoria italiana in generale. “Un unicum nel mondo– afferma Carlo- perché noi italiani abbiamo sempre tenuto alto il vessillo della tradizione, non abbiamo mai cercato di sovvertire questa tradizione. Oggi si parla tanto di intelligenza artificiale: ecco, ai giorni nostri un computer ti può fare la scansione del corpo e crearti un abito su misura”. Ma non è così che nascono i capolavori. “Serve l’occhio, il cliente va toccato, “sentito”. Tutte cose che un computer non può fare”. Non si diventa sarti per caso. La storia di Carlo ce lo insegna. “Il desiderio di fare il sarto ce l’ho dentro da sempre, sin da quando ero un bambino. Ma i miei genitori mi ostacolavano in tutti i modi. Allora io tagliavo e cucivo di nascosto, andavo nelle botteghe a tenere acceso il ferro a carbone. Respiro l’aria della sartoria e la conoscenza dei tessuti da sempre”. Ecco come si crea, dunque, l’eccellenza. “Noi italiani siamo molto forti, abbiamo l’estro, la voglia, la caparbietà di fare e di andare avanti. L’eccellenza italiana è destinata proseguire la sua storia nel tempo, l’importante è seguire sempre la tradizione”.

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Carlo Andreacchio con Anna Maria Girelli Consolaro, Direttore de L’Anima dell’Eccellenza

Come integrare innovazione e tradizione nella sartoria? “È molto difficile, perché il nostro lavoro implica l’uso della testa e delle mani, degli occhi…. Ecco, sono proprio le nostre mani che devono “sentire”. Come si può sostituire tutto questo? Certo, noi dobbiamo avvicinarci al futuro, ma lo dobbiamo fare seguendo la nostra strada, non quella degli altri. Oggi le scuole sartoriali forse insegnano troppo sul versante delle nuove tecnologie e poco su quello artigianale. Ma l’eccellenza si fa proprio qui, sul versante artigianale”.

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L’eccellenza, nella sartoria, si fa sul versante artigianale

Spostandoci da una stanza all’altra della Sartoria Caraceni, si incontrano molti giovani. “Noi abbiamo una trentina di dipendenti– dice Carlo-. Sono tutti molto giovani. Da noi arrivano quotidianamente ragazzi a lasciare il curriculum: io li accolgo tutti, parlo insieme a loro. Il problema, oggi, è che molti giovani vogliono fare pochi sacrifici. Il sacrificio è rinuncia, noi abbiamo li dovere di dare a questi ragazzi l’esempio”. La scuola, certo, da questo punto di vista è fondamentale. “Un tempo c’erano almeno una o due ore a settimana di laboratorio. Oggi è molto importante che qualcuno vada a parlare a questi giovani: se i ragazzi sentono un sarto parlare con trasporto della sua professione si entusiasmano. Mi viene in mente quando raccontai che le mie mani avevano addirittura toccato Eugenio Montale… un’esperienza indimenticabile. E questo, i ragazzi, lo sentono. È poi molto importante insegnare loro che non devono mai montarsi la testa: ogni giorno qui sei sotto esame, non ci si deve mai sentire arrivati. Io non mi fermo mai, se posso sperimento: ecco, per me l’innovazione sta qui”.

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Tutti i dipendenti della Sartoria Caraceni sono molto giovani

Massimiliano, figlio di Carlo e Rita Maria, lavora qui in Sartoria ed è il miglior esempio, insieme alla sorella Valentina (che lavora nell’amministrazione), di nuova generazione all’opera. Anche lui respira l’aria della sartoria da quando era un ragazzino. Oggi, a 38 anni, riceve i clienti più importanti, e porta avanti la famosa tradizione del “taglio caraceniano”. “Un uovo di colombo– dice, sorridendo, Carlo-. “Il taglio alla Caraceni è un segreto che si tramanda di generazione in generazione, e Massimiliano è cresciuto custodendo anch’egli questo segreto. Soltanto una persona per generazione può conoscerlo. Si tratta di un taglio che rende la linea Caraceni unica al mondo, dalle spalle fino al busto. Tutto viene costruito partendo da questo modello”.

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Massimiliano, figlio di Carlo e Maria Rita, lavora nell’atelier da quando era un ragazzino

Ecco il genio. Un segreto che arriva direttamente dal fondatore della Sartoria, Augusto Caraceni: in tanti hanno studiato e cercato di copiare questo taglio, ma senza successo. “È lo stesso motivo per cui non è possibile copiare la genialità italiana– sottolinea Carlo-. L’eccellenza che abbiamo in Italia non ce l’ha nessuno. In tantissimi cercano di imitarci, di colpirci da tutte le parti, le leggi e le tasse sono a nostro sfavore: ciononostante, noi lottiamo contro tutto e contro tutti, portando in alto la nostra genialità. Noi non ci fermiamo mai”. E la mente vola a quello “stato di grazia” che è la creazione. Tecnicamente, quello che viene definito “stato di flow”. “A me capita spesso di entrare in questa sorta di “trance”– afferma Carlo-. Quando ho un modello importante da creare, mi metto da solo, mi immedesimo nel cliente, vedo il modello addosso a quel cliente. Lo guardo…. Sì, mi soffermo anche più di mezzora a guardarlo, perché devo entrare completamente nella creazione. Poi, a un certo punto, mi “sveglio” da questo stato, e sono felice, convinto e soddisfatto per quello che ho fatto. Sono felice”.

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Il segreto del “taglio alla Caraceni” arriva direttamente dal fondatore della Sartoria, Augusto

Alla base del lavoro di Carlo ci sono solidi valori. “Innanzitutto, l’umiltà– sottolinea-. A partire dal modo con cui tratti i dipendenti. Non si può dare ordini soltanto, non funziona così. Ai dipendenti devi far passare prima il senso di responsabilità, poi la conoscenza. E parlo di una conoscenza in vari ambiti, non soltanto in quello della sartoria. Quando entra un cliente devi essere aggiornato, devi saper parlare di un po’ di tutto, perché ogni cliente ha il suo mondo. E tu devi fare di tutto per metterlo a proprio agio”. Cosa che Carlo sa fare magistralmente. Pensando poi al modello di riferimento, la mente e il cuore non possono che andare al grandissimo Mario Caraceni. Padre di Rita Maria, moglie di Carlo, Mario Caraceni è da sempre un’icona nella sartoria italiana. “Mario era un uomo straordinario– dice Carlo-. Nonostante la sua apparente durezza, Mario non era affatto una persona dura. Anzi. Sapeva dirti le cose in una maniera così efficace che tu riuscivi immediatamente a capire tutto quanto voleva trasmetterti. Mario mi ha insegnato tanto, soprattutto nel modo di vivere”.

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Mario Caraceni, icona della sartoria italiana

Un pensiero, infine, alla sartoria del futuro. “Se i sarti apporteranno alcuni cambiamenti al loro modo di pensare e di agire, il nostro settore avrà certamente uno sviluppo incredibile. Bisogna portare avanti il lavoro sempre più in modo artigianale anziché a macchina. Questo è il segreto. Non a caso– conclude Carlo- da noi i clienti arrivano da ogni parte del mondo. Io sono ottimista: se continuiamo sulla nostra strada, ossia quella della tradizione, il successo è garantito”.

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La prevenzione cardiovascolare: a questo tema di importanza fondamentale il Rotary Club Milano Duomo ha deciso di dedicare il proprio service. Una volontà, questa, espressa con profonda determinazione da tutti i soci, uniti nel commosso ricordo di Marco Capuzzello, giovane rotariano del Club scomparso prematuramente proprio a causa di una malattia cardiaca. La serata di settembre ha segnato proprio l’inizio ufficiale di questo percorso di realizzazione del service.

Ospite attesissimo e apprezzatissimo da tutti, il Prof. Antonio Luca Brucato, direttore responsabile del reparto di Medicina Interna al Fatebenefratelli e professore associato di Medicina Interna all’Università di Milano. Il Prof. Brucato rappresenta a livello internazionale un’eccellenza medica in ambito cardiologico, in particolare riguardo la pericardite.

Insieme al Prof. Brucato, sempre relativamente al medesimo tema, è intervenuta Claudia Tortorizio, presidente volontario di GILP (Gruppo Italiano Lotta alla Pericardite) e socia del Rotary Club Scandicci. “La prevenzione cardiovascolare va fatta sin da giovani e quando si è ancora in buono stato di salute– ha affermato in apertura di serata il Prof. Brucato-. Non ha senso fare prevenzione a 60 anni: bisogna pensarci prima. L’aterosclerosi, ossia la formazione di placche ricche di colesterolo sulle pareti delle arterie, inizia sin dalla più giovane età. I pilastri fondamentali di questa prevenzione sono rappresentati soprattutto da interventi sugli stili di vita (attività fisica, alimentazione corretta, no al fumo di sigaretta, etc) più che su interventi di tipo farmacologico”.

Il Prof. Brucato si è quindi addentrato specificatamente nel tema della pericardite, fornendo un quadro estremamente puntuale e dettagliato della situazione attuale. Ha illustrato ai soci la sintomatologia, le cause e le terapie più all’avanguardia in quest’ambito, sottolineando come il tipo di dolore sia un indicatore estremamente importante per distinguere, per esempio, la cardiopatia ischemica dalla pericardite.

La cardiopatia ischemica– ha spiegato il Professore, intervistato da Anna Maria Girelli Consolarodetermina un dolore toracico che può durare da 15 a 60 minuti circa, che passa e poi ritorna con un andamento che può protrarsi anche per più di un giorno. È un tipo di dolore non continuativo, ma che si struttura nell’arco di ore. L’importante è andare al pronto soccorso non appena ci si accorge che qualcosa non va, altrimenti le conseguenze possono esser anche mortali. Questo dolore si irradia generalmente verso il braccio sinistro (ma talvolta anche verso il destro) e verso la mandibola. Spesso è accompagnato da tachicardia, sudorazione (fredda), senso di affanno. Il dolore della pericardite, invece, di solito va avanti con intensità inizialmente non eccessiva per giorni e giorni, spesso per settimane, fino a diventare insopportabile. È proprio a questo punto che, di solito, si va in ospedale. Questo dolore tende a peggiorare quando si è sdraiati: migliora se ci si inchina in avanti. Peggiora poi col respiro: per questo si ha la sensazione di avere il “fiato corto”. Spesso è accompagnato da febbre. Abbiamo quindi due tipi di dolore molto diversi tra loro”.

A tal proposito, diventa estremamente importante una corretta informazione. “Per curare bene le persone è fondamentale instaurare una solida alleanza terapeutica tra medico e paziente– ha concluso il Prof. Brucato-. Il paziente competente è una ricchezza per tutti”.

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Il Prof. Antonio Brucato intervistato da Anna Maria Girelli Consolaro

Lunghissimi gli applausi per il Prof. Brucato dopo il suo intervento. La parola è passata quindi a Claudia Tortorizio, che ha portato ai soci la propria toccante e profonda esperienza di paziente affetta da pericardite. Claudia ha quindi illustrato l’attività di GILP- Gruppo Italiano Lotta alla Pericardite.

Sono orgogliosa di parlare di questa nostra associazione di volontariato che sta aiutando centinaia di pazienti su tutto il territorio nazionale. Come rotariana, penso che donare sia ciò che più dà appagamento e soddisfazione. Stiamo cercando di reclutare nuovi medici e di rendere facilmente accessibili le cure a persone provenienti da ogni regione d’Italia– ha spiegato la Presidente GILP-. È inaudito pensare che nel 2022, se abiti in Sicilia e sei malato di pericardite, per curarti tu debba spendere soldi per fare un viaggio fino a Milano. Come Presidente dell’associazione, il mio sogno sarebbe creare un laboratorio per la pericardite in ogni regione. Vorrei poi che ci fossero molti giovani a occuparsi di questo tema”.

Andrea Cortese, socio del RC Milano Duomo e responsabile del service sulla prevenzione cardiovascolare, ha quindi illustrato il service nel dettaglio. “Il nostro progetto nasce per sensibilizzare proprio le persone che generalmente sottostimano la pericolosità e la frequenza delle malattie cardiovascolari. Parliamo soprattutto dei 40enni, 50enni e 60enni. Per quel che possiamo, vogliamo evitare che si ripetano tragedie come quella che ci ha portato via il nostro Marco. Stiamo mettendo a punto un questionario che verrà erogato in modalità digitale e che vuole mettere a disposizione delle persone un percorso di anamnesi personale– ha spiegato Andrea- grazie al quale far comprendere la propria situazione di pericolo a uomini e donne potenzialmente a rischio. Scopo finale del service è quello di indurre tali soggetti a rischio a fare un percorso di visite ed esami che possano portare, in caso di necessità, a cure adeguate e tempestive. Il questionario verrà erogato in prima battuta ai rotariani, ma l’idea è quella di allargarlo poi al resto della popolazione, partendo da un bacino locale (Milano e hinterland) per arrivare a coprire tutta la nazione. Attraverso una serie di risposte fisse, il questionario fornirà un punteggio attraverso il quale sarà possibile fare un’autovalutazione. Contiamo di partire a inizio 2023. Quando un soggetto a rischio avrà compilato il questionario, avrà compreso la propria situazione di rischio, sarà andato a fare una visita e avrà avviato un processo di cura… beh, già questo vorrà dire per noi aver raggiunto l’obiettivo”.

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Parliamo oggi di eccellenza nell’ambito della chirurgia, e lo facciamo con un numero uno: Marco Lanzetta. Chirurgo della mano famoso in tutto il mondo, nel 1998 a Lione Marco Lanzetta ha effettuato il primo trapianto di mano al mondo, nel 2000 il primo trapianto al mondo di entrambe le mani e, nello stesso anno, il primo trapianto di mano in Italia. Marco Lanzetta lavora in ogni angolo del pianeta: oltre ad aver ricostruito la mano a tantissime vittime di attentati terroristici, tra cui molti bambini, Marco Lanzetta a puro scopo umanitario ricostruisce gli arti agli abitanti dei paesi più poveri.

Proprio il 23 settembre di quest’anno ricorre il 25esimo anniversario del primo trapianto di mano al mondo.

La chirurgia della mano e il trapianto di mano: un intervento dalla complessità tecnica estrema, difficilmente immaginabile. Possiamo ben immaginare quante microscopiche componenti ci sono dentro una mano: parti quasi invisibili che continuamente si interfacciano tra loro per far sì che tutto funzioni. Ma non soltanto. Pensate alle informazioni fresche che, attraverso i nervi ricostruiti, devono arrivare direttamente al cervello… Possiamo dire insomma che le mani rappresentano una sorta di prolungamento del cervello stesso. Fondamentali nella vita quotidiana, le mani hanno avuto anche un enorme
importanza nell’ambito dell’evoluzione dell’uomo.

Protesi di mani

Siamo andati oggi a scoprire l’anima dell’eccellenza di Marco Lanzetta. Un’anima fatta di tanta voglia di vivere e della volontà di non perdere nemmeno un istante della propria vita: “Odio perdere tempo- dice il chirurgo. “La nostra vita, corta o lunga che sia, è piena di momenti importanti e vanno sfruttati al massimo. Quindi io non sopporto non sfruttare il poco tanto tempo che ho”.

Perché proprio la mano, Marco?
“Perché a me piace il piccolo, mi piace la perfezione, mi piace l’estetica e voglio il massimo. Voglio che quel massimo si veda”.

Ma chi è il numero uno, secondo te?
“Il numero uno è quello che vince, nello sport, nella professione, nell’arte o nella scienza. Essere un numero uno vuol dire arrivare dove qualcun altro non è arrivato prima di te”.

Il libro di Marco Lanzetta intitolato Una mano più in là

Qual è il segreto per diventare un n. 1?
“Il n. 1 non è frutto della casualità. Ognuno, potenzialmente, può essere un n.1, l’importante è sapere come si fa. C’è un algoritmo da dare ai nostri figli. C’è la possibilità di partire dal fondo della piramide e salire al primo posto. C’è un percorso da studiare, con l’obiettivo di arrivare al top, dove non c’è nessuno. Il punto di partenza è pensare. Riflettere, oggi, è un’attività molto in disuso: nessuno pensa più, perché non ha tempo, voglia, predisposizione. Ma, se vuoi diventare un n.1., è fondamentale pensare e prendersi del tempo. Per un ragazzo, per esempio, può significare prendersi un anno sabbatico, o un anno per viaggiare per il mondo, o per fare volontariato. Pensare vuol dire capire cosa voglio fare nella vita. Di solito l’anno sabbatico ti pone di fronte a una serie di incontri, finché non fai l’incontro per antonomasia, quello che ti fa dire “Ecco, io voglio fare quella cosa lì!”. Quell’incontro lo fai al momento giusto. E questo incontro ti fa pensare. Devi riflettere: ma io voglio diventare un n.1? Non sono molti quelli che vogliono questo. Perché non tutti possono diventare un n.1″.

Dopo la riflessione cosa avviene?
“Bisogna capire come raggiungere il meglio. Quando hai capito che vuoi essere il più bravo nel tuo ambito, la seconda cosa è appunto arrivare al meglio. Chi è il più bravo in quella cosa? Devi andare lì, dal n.1 in quell’ambito, anche se è dall’altra parte del mondo. Devi andare dal migliore, non c’è alternativa. Così come Raffaello e gli altri pittori rinascimentale andavano a bottega. Quindi, devi identificare e raggiungere il meglio. Poi, dopo essere arrivati al meglio, si deve imparare da quel meglio. E imparare non ti viene dato gratis. Imparare vuol dire umiltà, tenacia e fatica fisica e mentale. Il maestro deve fidarsi di te, deve trasferire su di te la sua conoscenza, tu non devi mai contestarlo, ma sfidarlo. Lo sfidi, cercando di capire il più possibile da lui. E lui deve essere ben predisposto nel darti questa conoscenza. A quel punto, quando hai pensato e imparato, devi avere la capacità di capire quando partire. Ognuno ha il suo momento. Ti devi buttare soltanto quando capisci che è il momento giusto. E da lì puoi prendere il volo. Io, il momento in cui partire, l’ho sentito chiaramente. E ho seguito questo mio “istinto” e questa mia presa di coscienza”.

Come si chiude il cerchio?
“Con l’eredità che lasci. Un n.1 deve passare le sue competenze, il suo know how e la sua esperienza al n.1 che verrà dopo di lui. Soltanto così il cerchio si sarà chiuso”.

Torniamo alla tua eccellenza. Ci sono cose che, per te, sono fondamentali. Tra queste, il silenzio.
“Il silenzio è fondamentale: senza il silenzio non potrei lavorare. Non soltanto in sala operatoria, ma anche in tutti gli altri miei spazi professionali o meno, il silenzio è sempre presente”.

Un silenzio prezioso, che ti aiuta a entrare in quello stato che molti definiscono “di flow”. Anche tu, quando operi, entri in questo stato?

“Assolutamente sì. E questo è il motivo per cui, in sala operatoria, mi ci trovo così bene. Quando sei in sala operatoria non senti più il tempo che passa o le cose che succedono: sei in uno spazio differente”.

Marco Lanzetta in sala operatoria

Quali sono gli ostacoli, le barriere da vincere per diventare eccellenti nella chirurgia della mano?
“La prima barriera è quella che sta dentro di te. Se tu non sai di potere essere un numero uno, non ti ci mettere neanche, perché non ci potrai mai arrivare”.

Aspetto emotivo, sensibilità umana ed empatia: un vantaggio o uno svantaggio?
“Naturalmente entrambi. Bisogna essere empatici perché così si crea quel rapporto con il tuo paziente di fiducia totale e questo già è la metà del risultato. Però non bisogna eccedere, perché c’è il rischio di essere svuotati di energia. E, quando il serbatoio è vuoto, non si può più raggiungere niente”.

Abbraccio mani nei Paesi poveri

Nell’ambito della chirurgia della mano tu rappresenti sicuramente l’emblema del cambiamento. Quali sono i pilastri del vero cambiamento, sia a livello individuale che sociale?
“La curiosità di continuare a scoprire qualche cosa di nuovo, di sconosciuto e anche affascinante. Si entra in un mondo dove non esiste un un pregresso, un passato, e quindi si esplora proprio con anche la soddisfazione dell’esploratore appunto. A livello di società, penso che ci sia ancora poco da progredire: la mia visione personale è che siamo ormai arrivati al punto dove andare avanti vuol dire tornare indietro, e quindi dobbiamo andare a riscoprire delle cose che abbiamo superato e che, invece, oggi dovrebbero essere ancora attuali”.

Hai dei paletti?
“Sì, assolutamente sì. Prima di tutto il bene del paziente. C’è tutto uno schema etico che va rispettato. Mai fare qualche cosa di tipo troppo avventato, avveniristico o troppo innovativo, senza tenere presente i rischi e i benefici delle cose. Però bisogna anche rischiare, perché è solo così che si va avanti. Quindi, ripeto, pensandoci bene, si possono intraprendere le cose innovative che poi ti portano a un intervento ottimamente riuscito. Lì, provo un senso di arricchimento o di svuotamento, di euforia per aver magari fatto quello che era nelle mie possibilità e non essermi accontentato di una cosa meno buona”.

La chirurgia della mano. La mano. La nostra esperienza del mondo passa attraverso le mani. Non a caso Kant le definiva il cervello esterno dell’uomo, la finestra della mente . Che cosa rappresenta secondo Marco Lanzetta la mano per una persona?
“La mano non è un organo vitale, quindi tecnicamente parlando noi non salviamo una vita. O meglio, non salviamo la quantità di una vita, la lunghezza di una vita, ma sicuramente salviamo la qualità. Salviamo la capacità di poter realizzare qualche cosa secondo i propri talenti”.

Radiografia lastra mano

Il fatto di farsi trapiantare un arto colpisce maggiormente l’immaginario delle persone rispetto, per esempio, a farsi trapiantare un rene o un fegato. Questo quali implicazioni ha con il tuo lavoro?
“Implicazioni importantissime, perché come diciamo sempre, la mano ha una valenza molto importante anche dal punto di vista sociale ed estetico. Questo è un trapianto nuovo, non salvavita, ma un trapianto che ridona la qualità della vita a tanti pazienti che l’hanno persa”.

Il primo trapianto di mano al mondo. Uno solo al mondo, appunto, avrebbe tagliato quel traguardo per primo. Agosto 1998, tu sei a Montreal, stai andando al congresso mondiale della microchirurgia alla guida del tuo fuoristrada appena noleggiato. Decidi che quell’uno solo saresti stato tu: una decisione che hai preso in una frazione di secondo. Ecco, Marco: cosa sta dietro quella frazione di secondo?

“Dietro questa decisione c’è un lavoro lunghissimo, di quattro anni e mezzo, in silenzio. In varie parti del mondo rincorrevo tutto quello che era stato fatto dal punto di vista sperimentale perché volevo avere una conoscenza assoluta dello stato dell’arte. In quel momento sono stato anche molto fortunato perché si è realizzata una congiuntura di tante situazioni per cui avevamo un’organizzazione, un paziente, avevamo le idee chiare avevamo dei protocolli e quindi ho percepito che in quel momento ci eravamo e che si poteva fare”.

Veniamo proprio al giorno dell’intervento. 23 settembre 1998, ospedale di Lione, 13 ore di intervento chirurgico. Naturalmente in sala operatoria silenzio totale, quasi surreale. E poi il traguardo, la vittoria, una gioia indicibile, possiamo dire l’euforia dell’anima. Quali sono i pensieri e le emozioni che ricordi di allora e quali quelli di oggi, ripensando a quel momento?
“Sì non ho bisogno di pensare a un ricordo perché è un’emozione che è presente ancora adesso, uguale identica, un’emozione che non è mai svanita, non è mai sfumata. È stato veramente un traguardo straordinario e farne parte mi ha ripagato anche di tutto il lavoro che era stato fatto prima. È qualche cosa che ha segnato tantissimo la mia vita ed è un qualche cosa che mi ha cambiato anche in bene, forse pure, in qualche modo, nel male. Comunque mi ha cambiato, non mi ha lasciato come ero prima”.

Marco Lanzetta durante il primo intervento riuscito di trapianto di mano al mondo a Lione

Traguardi e successi inimmaginabili. Eppure tu, Marco, per esempio i premi riconoscimenti, se puoi, li rifiuti. Perché?
Perché sono la prova lampante che sei decadente, che sei finito, che sei in uscita. E quindi non mi fa piacere. Ce ne sono alcuni che si devono accettare. Però, in generale, gli applausi finali si fanno quando tutto si sta chiudendo.

Il primo trapianto di mano al mondo. Una scommessa che fino all’ultimo poteva rivelarsi troppo azzardata, e che invece tu hai vinto. “Anche se- come dici sempre- da domani comincerà un’altra avventura”. Tu, Marco, senza pensare a una nuova sfida proprio non ci sai stare. Qual è la prossima sfida di Marco Lanzetta? Qual è la tua prossima avventura?

“Sì, il trapianto di mano diciamo è archiviato, nel senso che ormai non si tratta più di un intervento pilota sperimentale ma ci sono tantissimi centri al mondo che fanno trapianti di mano. Quindi questo ad esempio è una grandissima soddisfazione. Da parecchi anni mi sono dedicato una cosa che non è per pochi come il trapianto della mano ma per tantissime persone, per milioni di persone. Mi sono dedicato l’artrosi e sto cercando, credo anche con qualche riscontro positivo come ci dicono i nostri pazienti, di trovare delle terapie alternative a quelle tradizionali. Sto cercando quindi di lavorare molto di più sull’alimentazione, sul movimento, sulle cellule staminali e questo è motivo di grande soddisfazione”.

Rifaresti tutto da capo?
Sì, assolutamente. Non cambierei niente, perché se guardo indietro alle scelte che ho fatto, penso che erano tutte scelte fatte in buona fede. Alcune volte non avevo le risposte alle mie domande perché era un terreno sconosciuto quindi mi sono dovuto fidare del mio istinto. E quindi sì, in larga parte devo dire che non rimpiango niente. Puoi farmi la domanda due volte?

Va bene. Rifaresti tutto da capo?
“Assolutamente no. Farei tante cose in maniera completamente diversa. Col senno del poi, e forse ripensandoci, anche allora avrei potuto avere gli elementi per fare delle scelte diverse. E ho fatto degli sbagli che non ti dico, però ne ho fatti tanti, e non ne son orgoglioso: spero di avere la possibilità di correggerne qualcuno. Però la risposta è no”.

Marco Lanzetta con Papa Francesco

Quando, nel tuo ambito, un intervento può dirsi veramente riuscito?
“Quando tu hai riportato una mano fragile, lesionata, brutta esteticamente, il più vicino possibile a quello che era prima dell’incidente, della malattia. Questo il grande successo della chirurgia è visibile a tutti, non è una cosa nascosta: il paziente, i parenti, gli amici, i familiari e il chirurgo lo possono vedere tutto il tempo sotto i loro occhi. Quindi non hai scuse, non puoi dire non è non è colpa mia, perché sei stato tu a farlo”.

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